domenica 13 novembre 2005

IL DIAVOLO DELLA CASCATA


La stagione delle piogge sta volgendo al termine ed il sole squarcia le nuvole di Freetown in questa calda giornata di fine ottobre.
Bob chiacchiera senza sosta mentre guida la sgangheratissima Nissan Sunny del suocero che rischia di disintegrarsi ad ogni minima sollecitazione e mi racconta la sua vita di ex calciatore e terzino della
nazionale che, come tutto il resto in questo paese, la guerra ha travolto e distrutto. Anche lui conosce Baggio e Del Piero (dannazione, anche qui in Africa!) e adora il campionato italiano.

Ci lasciamo alle spalle il traffico colorato ed infernale della capitale, la strada di terra battuta è disseminata di crateri causati dalle abbondanti piogge estive e la Nissan saltella allegramente mentre attraverso piccoli villaggi di pescatori lungo la costa atlantica
La pesca, è una delle poche fonti di sostentamento per la popolazione che, stremata da una lunga guerra civile, vive in condizioni subumane.

Sussex è uno dei tanti villaggi che si alternano durante il percorso e non si differenzierebbe dai suoi colleghi se non vi fosse un piccolo ristorante che nasconde una storia unica che vale la pena di essere raccontata.
Franco Miari da Modena, classe 1936, un omone grande cosi, capelli bianchi e pelle bruciata dal sole è un nome che ai più non dirà nulla ma che, a chi di mare se ne intende, farà suonare un campanello. Lui ha scoperto la Sierra Leone venticinque anni fa da turista per caso e non se ne è più andato. Venticinque anni vissuti intensamente e pericolosamente tra pesca, guerra, storie di pirati, di vascelli antichi insabbiati al largo di Banana Island, di cacciatori di diamanti. Gli indigeni della provincia qui lo chiamano con timore e rispetto the devil of the waterfall, il diavolo della cascata, per la sua unica capacità di immergersi a pescare sotto una cascata che gli indigeni credono abitata dal demonio avendo visto inghiottire chiunque abbia osato sfidare la sua forza. E tuttora il chief del villaggio gli stringe la mano con una certa riluttanza. Stringere la mano al diavolo, del resto, inquieterebbe chiunque.

Franco ha sempre vissuto in rapporto simbiotico con l’acqua e tanti anni fa, prima che l’Africa lo rapisse, si immergeva con i suoi amici Enzo Maiorca e Jacques Mayol sfidandoli a chi arrivasse più giù. E spesso vinceva lui. Solo che a lui i record di profondità ed i titoli di giornale non interessavano, a lui interessava vivere il mare in maniera privata ed esclusiva, lontano dai riflettori.
E l’abitudine non l’ha ancora persa. Almeno due volte a settimana, insieme a suo figlio Fabrizio, salta sulla sua lancia di legno e, fiocina in braccio, si tuffa nelle profondità dell’Atlantico a caccia di barracuda, snapper e grouper che poi serve ai numerosi ospiti nel suo ristorante affacciato sul mare, una piccola oasi circondata dalla rigogliosa foresta tropicale, che in ricordo dell’Italia ha chiamato Florence.

La lancia è ancorata a riva e Franco ci sta aspettando ritto sul cassero come un vecchio bucaniere. Il mare è calmo, il motore da cinquanta cavalli della barca borbotta sommessamente mentre prendiamo posto a bordo pronti a salpare in direzione sud.
La lancia solca tranquillamente le onde e Franco con delle rapide gesta indica la rotta ai suoi due scagnozzi che si è portato dietro per la battuta di pesca.
La visione che mi si para davanti agli occhi toglie il fiato. La natura in questo piccolo angolo di mondo non è ancora stata piegata e violentata dall’uomo ed ho come la sensazione di sentirmi come uno di quei vecchi marinai portoghesi che scoprirono questa parte di mondo qualche secolo fa. Da allora infatti ben poco è cambiato, la natura regna ancora incontrastata ed il turismo di massa è ancora un illustre sconosciuto.
La costa è di una bellezza unica, le montagne coperte da fitta foresta pluviale degradano verso il mare che viene contornato da lingue di spiaggia bianchissima.

Ancoriamo la lancia vicino al relitto di un peschereccio cinese divorato dalla ruggine ed incagliatosi in una secca alcuni anni fa. Franco dice che li c’è pesce, infila le pinne, imbraccia il fucile e si butta in mare. Ogni tanto scompare per alcuni interminabili decine di secondi per poi riaffiorare.
Si lamenta per la scarsa visibilità ma dopo pochi minuti eccolo emergere con un grouper di tre chili abbondanti che lui usa al ristorante per preparare un carpaccio delizioso. La battuta di pesca va avanti per un paio d’ore ed alla fine ce ne ripartiamo con un discreto bottino.

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Poco più a sud si intravede il promontorio di Kent, porto di imbarco per un viaggio di sola andata per milioni di schiavi africani diretti nelle piantagioni di cotone del nuovo mondo.
Sono anche luoghi carichi di storia, sconosciuta ai più.
A Kent attracchiamo e scendiamo a terra ed i pescatori ci portano subito qualche cesta di aragoste vive gigantesche che per pochi dollari acquistiamo. Saranno la nostra cena al ritorno. Franco ci mostra le rovine del vecchio forte britannico dove gli schiavi transitavano per essere poi trasferiti a Banana Island.
L’isola si trova proprio di fronte a Kent ed è abitata da una piccola comunità di pescatori. Sulla spiaggetta dove sbarchiamo ci sono due cotton trees giganteschi tra i quali si inerpica una scalinata costruita dai britannici che conduce al villaggio.
Il capo villaggio con cui Franco chiacchiera in un buffo creolo misto al modenese, ci fa da guida, ed i bambini, che di marinai bianchi ne han visti ben pochi, ci scrutano terrorizzati.
La maggioranza degli abitanti porta cognomi irlandesi, scozzesi ed inglesi a testimonianza che qualcuno di quegli schiavi alla fine non attraversò l’oceano.

Banana è un posto dove il tempo si è fermato qualche secolo fa, dove il silenzio della natura ti circonda, dove il senso della storia ti penetra le ossa.
Sono i rifiuti di plastica vomitati dal mare ed abbandonati a morire sulla spiaggia a ricordarti il tuo legame indissolubile col presente.
I pescatori vivono in capanne prive di luce ed acqua corrente, non ci sono strade né tantomeno auto, l’isola è coperta da una vegetazione fitta ed impenetrabile. Anche qui, divorati dalla foresta, si trovano ancora i resti della dominazione britannica e portoghese. C’è ancora qualche cannone, qualche vecchia tomba di qualche irlandese o portoghese, magari ammazzati dalla malaria o, più probabilmente, dalla solitudine, una vecchia chiesa cristiana ancora utilizzata per cantar messa la domenica, alcuni pozzi costruiti dai portoghesi uniche fonti tuttora di approvvigionamento di acqua dolce per gli abitanti dell’isola.

È il sole, che lentamente sta scendendo sulla linea dell’orizzonte, a rompere l’incanto ed a ricordarci che è ora di tornare a casa. Tra poco più di un’ora sarà inghiottito dall’oceano in un tramonto mozzafiato.
Gli indigeni ci osservano con sguardo indifferente mentre prendiamo posto a bordo.

Si va, ci lasciamo alle spalle l’isola ed i suoi ricordi perduti nel tempo, la griglia del ristorante è gia calda e scoppiettante e le aragoste ci aspettano impazienti.

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